mercoledì 11 novembre 2015

I veri problemi del cibo di origine animale


Introduzione

Già diversi post apparsi precedentemente su questo blog hanno identificato e spiegato i problemi di salute associati con il consumo di cibo di origine animale, particolarmente latte di vacca e carne in generale.
Si sono spesso tratte conclusioni basate su dati clinici e/o epidemiologici e dunque, in sostanza, statistici; da un punto di vista scettico si sarebbe sempre potuto osservare che la statistica lascia il tempo che trova quando ci si concentra sulla salute di una singola persona, che può o meno mostrare gli effetti riassunti da una statistica.
Ma arriva il momento in cui, finalmente, la ricerca fa quel passo avanti in più, mostrando le basi biologiche e molecolari che spiegano i dati precedenti; si vedono, cioè, con esami clinici obiettivi, le reali reazioni biochimiche che spiegano problemi generati o risolti dal consumo di una certa sostanza: ecco la dimostrazione definitiva della pericolosità o della salubrità di tale sostanza!

Il Dr. Michael Greger

Questo post è basato su una serie di video appartenenti alla raccolta "Latest in Clinical Nutrition" ("Novità nella Nutrizione Clinica") in cui il Dr. Michael Greger riassume e divulga tutte le ultime novità apparse in articoli scientifici pubblicati su riviste mediche serie; il Dr. Greger dona in beneficenza tutti i proventi della vendita dei suoi DVD, e ogni giorno pubblica gratuitamente un nuovo video estratto dall'ultimo DVD sul sito NutritionFacts.org. Il Dr. Greger è estremamente preparato, serio e professionale nel suo lavoro, ma anche molto simpatico e divertente da seguire nel suo modo di porgere contenuti che altrimenti rischierebbero di essere noiosi, quindi ho deciso di aiutarlo io stesso traducendo in italiano i sottotitoli dei suoi video!

La teoria dell'intestino permeabile: perché i prodotti di origine animale causano infiammazione

Si sa già da tempo che gli alimenti vegetali godono di spiccate capacità anti-infiammatorie nell'uomo [Watzl et al. 2008].
Ma si sa da molto più tempo che basta un singolo pasto ricco di grassi animali per causare infiammazione diffusa alle pareti delle arterie, facendo loro perdere fino al 50% delle capacità motorie (espansione e contrazione al ritmo del cuore) nel giro di poche ore dal pasto [Vogel et al. 1997]; il massimo si ha 4 ore dopo, e la situazione ritorna normale circa 6 ore dopo, cioè quando solitamente si passa al pasto successivo: molte persone consumeranno di nuovo grassi animali, e così questo processo infiammatorio di bassa intensità diventerà cronico nelle pareti delle loro arterie.
Lo stesso effetto infiammatorio è stato poi recentemente osservato sui polmoni e sulle vie aeree, sempre a poche ore di distanza da un pasto ricco di grassi animali [Rosenkranz et al. 2010], suggerendo un legame tra una dieta ricca in grassi animali e l'insorgenza di malattie croniche infiammatorie dei polmoni e delle vie aeree.
Un'infiammazione cronica, anche se di livello modesto, è di per sé fattore di rischio per tutte quelle malattie croniche di origine infiammatoria riconosciuta, come le malattie cardiache, il diabete e i tumori. Ma le infiammazioni sono, in generale, effetto di una risposta immunitaria del nostro corpo, e allora bisogna chiedersi: contro cosa sta combattendo il nostro corpo? Ci sono volute molte altre ricerche per arrivare a capirlo.
Ad esempio, sono stati riportati casi di infiammazione alle articolazioni in alcuni pazienti, collegate a forme allergiche o reumatiche, e si è ipotizzato che il motivo stesse nelle proteine della carne consumata dalle persone oggetto dello studio [Kutlu et al. 2010]; era infatti stato già ipotizzato in precedenza che il corpo potesse interpretare eventuali proteine animali in circolazione nel sangue come un'invasione di agenti patogeni.
Ma poi è stato osservato un analogo aumento del livello di infiammazione nel corpo di volontari, anche a seguito del consumo di panna, a differenza di quanto avveniva consumando acqua, zucchero o succo d'arancia [Deopurkar et al. 2010]; qui il picco di infiammazione era a 3 ore dal pasto, e dopo 5 ore i livelli non si erano ancora completamente normalizzati. Il problema adesso è che non ci sono molte proteine nella panna, e allora l'attenzione è tornata sui grassi animali saturi. Ma è altamente improbabile che il corpo si metta ad attaccare i grassi, e così nel medesimo articolo si trova una prima parte della risposta: nelle persone oggetto dello studio, l'infiammazione era dovuta al livello di endotossine (tossine da batteri gram-negativi) nel sangue, che aveva il proprio picco a 3 ore dal pasto, e rimaneva all'incirca stabile dopo 5 ore.
Era nel frattempo stato ipotizzato che questo (comunque basso) livello di endotossine in seguito ad un pasto molto grasso fosse dovuto al fatto che i grassi fungevano da vettori delle tossine prodotte dagli stessi batteri che vivono nell'intestino umano [Erridge et al. 2007].
Successivamente, è stato riscontrato nei topi come una dieta molto ricca di grassi animali (lardo) e anche il rapporto tra i diversi tipi di batteri che popolano l'intestino fosse alla base dell'aumento delle endotossine, e con esse dell'infiammazione costante che poi induceva obesità e diabete di tipo 2 [Cani et al. 2008].

La teoria delle endotossine esogene

Abbiamo dunque visto come si sia arrivati ad ipotizzare che gli alimenti ricchi di grassi animali facciano diventare l'intestino permeabile alle tossine prodotte dagli stessi batteri che lo abitano normalmente.
Ma un'analisi più approfondita dei risultati fin qui mostrati evidenzia che, se da una parte l'infiammazione inizia a manifestarsi già 2 ore dopo l'ingestione di grassi animali, dall'altra i nostri batteri abitano prevalentemente le parti basse dell'intestino, dove il cibo arriva diverse ore dopo!
Dunque inizia a farsi strada l'ipotesi che le endotossine batteriche possano provenire non dai batteri ospiti del nostro intestino, ma dal cibo stesso; in un recente articolo si è quindi studiata la capacità che 26 alimenti comuni mostrano nel sollecitare direttamente l'attivazione di globuli bianchi umani in vitro. Ebbene, è stato dimostrato che il tacchino, il maiale, il gelato e la cioccolata hanno un potere di stimolazione 10-15 volte più alto rispetto alla media di tutti i 26 alimenti studiati [Erridge 2011].
Per la cioccolata, le tossine possono provenire dai batteri responsabili della prima fase di lavorazione delle fave di cacao: fermentazione batterica, appunto; ma le spiccate capacità antinfiammatorie dei flavonoidi contenuti nel cacao sembrano controbilanciare completamente questo effetto [Selmi et al. 2008], come chiaramente osservato nei consumatori abituali di cioccolato fondente [di Giuseppe et al. 2008].
Lo stesso non può dirsi per i prodotti di origine animale prima menzionati: tacchino, maiale e gelato.

Le endotossine dei batteri della carne morti

Era stato già precedentemente mostrato che alimenti anche non scaduti possono comunque contenere carche batteriche tanto forti da causare risposte immunitarie infiammatorie: ad esempio, si sapeva già che 113 grammi carne di manzo macinata fresca (lo standard per un hamburger) contengono da uno a cento milioni di miliardi di batteri vivi. Ma nessuno ne ha mai impedito la messa in vendita né il consumo, dato che i batteri muoiono tutti con la cottura!
Ma la ricerca prima menzionata mostra che il potere infiammatorio degli alimenti permane anche dopo la cottura [Erridge 2011]: cioè i batteri possono anche essere morti, ma le loro endotossine sono ancora presenti nell'alimento! Ad esempio, il potere infiammatorio della carne permane anche dopo 2 ore di bollitura, dopo 2 ore in un bagno acido (tipo il nostro stomaco) ed anche dopo prolungata esposizione ai nostri enzimi pancreatici!
Dunque si ipotizza che anche l'occasionale ingestione di questi alimenti altamente contaminati porti a sviluppare un'infiammazione costante e latente, che a sua volta ci rende soggetti allo sviluppo di aterosclerosi ed insulino-resistenza.
Inoltre, dato che le endotossine batteriche hanno affinità per i medesimi recettori intestinali che assorbono i grassi saturi, ecco che è riconosciuta la pericolosità dei grassi saturi contenuti in alimenti di origine animale carichi di batteri (vivi o morti che siano, poco importa): i grassi saturi fanno da vettori alle tossine batteriche, portandole nel circolo sanguigno!
Un recente articolo [Harte et al. 2012] conferma questa interpretazione, e riconosce la pericolosità di un'alimentazione ricca di grassi animali in quanto capace di indurre aumento dei livelli infiammatori in pazienti di diabete di tipo 2; ma è sconcertante la conclusione dell'articolo: gli scienziati riconoscono che la mossa più ovvia sarebbe quella di raccomandare un ridotto apporto di grassi animali con la dieta, ma mostrano delusione perché, a loro dire, le persone non sarebbero pronte ad accettare una tale direttiva.

Altri processi infiammatori dovuti al consumo di alimenti animali

Acido arachidonico in carne e uova [Dr. Greger]

Il pollame e le uova sono i maggiori fornitori naturali di Acido Arachidonico, un Omega-6 a catena lunga che anche il nostro fegato sintetizza, ma solo quando necessario, dato che esso è all'origine di tutti i nostri processi infiammatori [Galland L., 2010].
E' esattamente come per il colesterolo: i carnivori lo ottengono dalla loro alimentazione a base di altri animali morti, mentre noi, come ogni altro erbivoro del pianeta, lo sintetizziamo nel fegato.
E' quindi ovvio, nell'uno e nell'altro caso, che consumare alimenti che contengono tali grassi ci pone a rischio di aumento di processi infiammatori in generale.


Un acido sialico alieno nella carne [Dr. Greger]

La molecola infiammatoria Neu5Gc (un acido sialico) è sistematicamente ritrovata nei tumori umani durante le autopsie, ma né nel DNA umano, né in quello dei batteri intestinali c'è la capacità di produrla, e non si trova neppure nelle piante: si tratta dunque di materiale alieno, assunto tramite l'alimentazione a base di cadaveri di altri animali che sono in grado di produrlo [Tangvoranuntakul P. et al, 2003]. Le cellule umane lo impiegano poi al posto di altre molecole simili (altre forme di acido sialico) esponendosi, così, alla risposta immunitaria che combatte giustamente il Neu5Gc alieno [Padler-Karavani V. et al., 2008]. Ha così origine un costante livello di infiammazione cronica, che a sua volta aumenta il rischio di artriti, tumori e malattie cardiovascolari.

Ammine eterocicliche nella carne cotta [Dr. Greger]

Già negli anni '90 due studi internazionali misero in correlazione il consumo di carne fritta o arrostita con il cancro al seno, e nel 2000 è stato identificato il probabile colpevole, una ammina eterociclica chiamata in modo abbreviato PhIP [Sinha R. et al., 2000].
Le ammine eterocicliche sono sostanze cancerogene ormai diffuse ovunque, dato che si trovano nella carne, nel pollame e nel pesce cotti, nonché nel fumo di sigaretta. Si producono anche nelle carni grigliate e affumicate, e il rischio di cancro al seno deriva direttamente dalle capacita mutagene di questi composti: il livello di consumo di carni cotte è direttamente correlato al numero di mutazioni del DNA riscontrate nel tessuto mammellare [Rohrmann S et al., 2009].
Le mutazioni al DNA provocate da qualunque ammina eterociclica possono dunque dare il via al tumore, ma la scoperta più scioccante è relativa al PhIP, che è addirittura capace di promuovere la crescita del tumore, grazie alla sua azione estrogenica potente quasi quanto quella dell'estrogeno vero e proprio, anche a basse dosi [Lauber SN et al., 2004].
Rimane solo da sapere se il PhIP è veramente capace di raggiungere i dotti mammellari, che sono il tipico sito iniziale per il tumore al seno: e così è stato identificato il PhIP anche nel latte materno di donne sane consumatrici di carni cotte [DeBruin LS et al., 2001].
E' principalmente la creatinina, aminoacido abbondante nelle proteine animali, che con la cottura ad alta temperatura dà origine a varie ammine eterocicliche [Holland RD et al., 2005].

Stress su fegato e pancreas per il consumo di proteine di "alta qualità" [Dr. Greger]

Una volta smontato il concetto di "proteine nobili”, intendendo con tale termine quelle fonti di proteine che potessero annoverare la fornitura completa di tutti gli amminoacidi a noi essenziali, i nutrizionisti mediatici si sono inventati il nuovo concetto di “proteine di alta qualità” per intendere che le proteine animali hanno una dotazione di amminoacidi in rapporti quantitativi reciproci simili ai nostri. Intanto una prima risposta logica è che la qualità più alta costoro la possono trovare nella carne umana, se inclini a praticare il cannibalismo!
Ma la risposta scientifica è ancora più disarmante: per ragioni forse non ancora del tutto comprese a fondo, il nostro fegato rilascia grandi quantità di fattore di crescita insulino-simile 1, o IGF-1, in risposta al consumo di proteine di “alta qualità” [Allen NE et al., 2002].
Su questo blog ho anche presentato un articolo in cui si nota un'estremamente variabile risposta insulinica, dunque a carico del pancreas, in seguito al consumo di proteine animali senza carboidrati.
I due risultati paralleli indicano un non necessario stress posto su questi due delicatissimi nostri organi interni in seguito al consumo di alimenti di origine animale; si può approfondire su insulina e IGF-1.

Contromisure da parte dell'industria della carne

L'industria USA della carne si sta muovendo per affrontare i problemi di tossicità della carne, per ridurre le contaminazioni batteriche nonché (addirittura!) per ridurre la tossicità (!!!) del ferro-eme: ma possiamo stare tranquilli?

Misure contro le contaminazioni batteriche [Dr. Greger]

I pericoli di contaminazione per i prodotti di origine animale sono in aumento, grazie anche alla pratica di dare antibiotici ad ampio spettro a scopo preventivo a tutti gli animali compresi quelli non malati, e nuovi agenti patogeni si affacciano quindi sul mercato [Scallan et al. 2011] a fianco di quelli già conosciuti:
  • Non ci si è ancora sbarazzati della salmonella nelle uova, dato che resiste a molti metodi di cottura tradizionali e può contaminare anche gli utensili da cucina! [Davis et al. 2008]
  • Che dire degli agnelli: il 27% di quelli destinati all'alimentazione umana negli USA è stato trovato positivo al test per un parassita del cervello, il Toxoplasma gondii [Dubey et al. 2008], che è stato dimostrato essere in grado di provocare la schizofrenia nell'uomo [Yolken et al. 2009].
  • Ai polli allevati negli USA è stata da sempre data una dose di medicinali contenenti arsenico, adesso si incomincia a parlare di tossicità della carne da essi derivata [Silbergeld et al. 2008]. E una particolare variante del batterio Campylobacter trovato nelle feci dei polli di allevamento è stato recentemente correlato con l'insorgenza della Sindrome di Guillain-Barré, una paralisi di origine autoimmunitaria per risposta imprecisa del sistema immunitario [Hardy et al. 2011].
  • Anche l'insorgenza di leucemia nei bambini USA è stata correlata con il consumo di hot-dog e carne processata/conservata in generale [Peters et al. 1994].
  • Sempre l'utilizzo indiscriminato degli antibiotici ad ampio spettro ha portato allo sviluppo di ceppi resistenti, come ad esempio il Clostridium Difficile trovato in passato nei polli [NRC 1985] e più recentemente nelle mucche [USDA 2010]; le spore di questo batterio possono rimanere attaccate alle mani di chi tocca carne contaminata, e non si lavano via con i nuovi gel all'alcol, ma più tradizionalmente con acqua e sapone! [Jabbar et al. 2010].
  • Nei maiali allevati in spazi ristretti in stile industriale USA, si trova il batterio Yersinia enterocolitica che è per loro asintomatico, mentre è estremamente pericoloso per l'uomo, con reazioni possibili che vanno dalla diarrea fino all'artrite autoimmune [Ortiz Martinez P., 2010].
E allora? Beh, la FDA (Food and Drug Administration USA) ha già da molto tempo approvato la pratica dispruzzare virus batteriofagi (cioè che uccidono i batteri) come additivo alimentare sulle carni pronte per il confezionamento (quindi sempre dopo la frollatura) [Bren 2007]. Gli articoli in cui vengono provate queste fantastiche pratiche sono stati pubblicati tutti dopo l'approvazione della FDA [Guenter et al. 2009] [Afterbury 2009] [Carvalho et al. 2011]. Ancora oggi, comunque, si evita di usare questa tecnica per la preoccupazione che possa non essere accettata dai consumatori! 
Ecco dunque nuovi studi scientifici pagati dall'industria della carne USA per innovare i metodi di riduzione del rischio delle carni da allevamento. Guardate che idea spettacolare: le larve delle mosche carnarie si nutrono tranquillamente di carne in putrefazione, quindi ricchissima di batteri in azione; evidentemente, dunque, esse devono possedere un potentissimo sistema immunitario! Allora ecco che con metodo scientifico si studia l'effetto dell'applicazione, alla carne di maiale pronta per la vendita, di uno spray ottenuto frullando queste larve dopo 3 giorni di vita... Per chi ha il coraggio di leggere l'agghiacciante articolo originale: [Wang et al. 2010].
In realtà, il problema è ben più profondo: tutti questi studi sui nuovi metodi di riduzione del rischio parlano di morte dei batteri presenti nella carne mediante lisi (rottura) della loro membrana. Il che lascia, ovviamente, le endotossine intatte nel prodotto, e il problema originario aperto, anche se meno rilevabile: infatti, i controlli di sicurezza alimentare standard sono in grado di individuare facilmente la presenza di batteri vivi, mediante normali metodiche di coltura; è invece molto molto più difficile individuare le endotossine libere, come visto nell'articolo prima richiamato [Erridge 2011].

Misure contro la tossicità del ferro-eme (!!!) [Dr. Greger]

E' ormai ben noto che l'assorbimento del ferro vegetale è più limitato rispetto a quello del ferro animale: il ferro-eme contenuto nella carne è biochimicamente identico a quello nella nostra emoglobina (e perciò detto ferro-eme), quindi il corpo lo assorbe molto più facilmente (vedi, ad esempio, l'illuminante articolo suWikipedia). Ma ecco due problemi finora non rilevati, soprattutto il secondo:

  1. Il ferro è l'unico minerale di cui il nostro corpo non sa liberarsi se si trova ad averne in eccesso, e infatti l'assorbimento troppo “diretto” del ferro-eme porta a rischi di intossicazione da eccesso di ferro.
  2. Il ferro-eme è proprio tossico di per sé! Lo dicono già centinaia di articoli scientifici, ma basta citarne uno solo [Corpet DE, 2011], in cui si vede l'enorme e multi-miliardaria industria della carne USA che cerca nuovi metodi per correre ai ripari, data la forte correlazione tra consumo di ferro-eme e tumore al colon! Il metodo studiato nell'articolo consiste nell'aggiunta di calcio e vitamina E alla carne per diminuire la tossicità del ferro-eme: il calcio limita l'assorbimento del ferro [Wikipedia], e la vitamina E, in quanto antiossidante, limiterebbe "al volo" le capacità ossidative del ferro-eme.

Conclusione


Finalmente, dunque, la ricerca medico-scientifica ci consente di passare dal piano statistico-epidemiologico a quello biochimico-microbiologico quando si parla della pericolosità derivante dal consumo di prodotti di origine animale. A questo punto, non si può più cavarsela semplicemente ipotizzando di avere caratteristiche genetiche diverse da quelle espresse nel campione utilizzato per gli esperimenti: può variare soggettivamente l'intensità dei problemi, ma tali problemi si può facilmente comprendere che riguardino tutti.
E' qui da notare come la carica batterica presente nella carne sia un qualcosa di inevitabile nella nostra cultura, dato che senza il processo di frollatura la carne degli animali appena abbattuti non è giudicata commestibile; la frollatura è in realtà una vera e propria fermentazione batterica, che porta inevitabilmente al moltiplicarsi della carica batterica totale nel prodotto.

A questo proposito, dato che è illegale vendere automobili non sicure, giocattoli non sicuri, ecc., ci si potrebbe chiedere come mai sia legale vendere carne non sicura. Basta cuocerla troppo poco, e vi si possono trovare batteri potenzialmente pericolosi ancora vivi all'interno; se invece la si cuoce per bene, comunque porta un carico di endotossine potenzialmente pericoloso, oltre che magari anche delle ammine eterocicliche dovute alla cottura. Intervistato nel 2002 a questo riguardo, il microbiologo americano della USDA Nelson Cox affermò che "Le carni crude non sono a prova di idiota. Possono essere maneggiate male, e quando ciò accade è come maneggiare una bomba a mano: se tiri la spoletta, qualcuno si farà male”. Gli fu fatto notare come non sia molto saggio vendere bombe a mano al supermercato, ma Cox insistette: “Penso che sia il consumatore ad avere la responsabilità maggiore, ma rifiuta di accettarla". Come dire che è colpa nostra se ci ammaliamo mangiando la carne che ci vendono!

Bisogna ancora una volta chiedersi, dunque, quanto sia naturale o meno, per la specie umana, il consumo di carne ed altri alimenti di origine animale così come li troviamo in commercio. La risposta non può che essere negativa, date le evidenze fin qui presentate, vere per i prodotti animali di qualunque origine (anche se in alcuni casi solo da allevamenti intensivi); quindi anche chi propaganda il consumo di carne “biologica” (ammesso che sia sostenibile la sua produzione) è servito: colesterolo, acido arachidonico, Neu5Gc, ferro-eme, tossine da batteri cadaverici e sovraproduzione di insulina ed IGF-1 sono comunque sempre presenti; le ammine eterocicliche pure, se la cottura raggiunge temperature troppo alte.

Non serve dunque aggiungere altro, quindi non andiamo nemmeno a parlare degli inquinanti ambientali:

  • fertilizzanti, diserbanti, anticrittogamici e conservanti spruzzati sulle granaglie che vengono usate come mangime invece di erba e fieno e che poi si accumulano nei corpi degli animali;
  • antibiotici iniettati agli animali continuamente per promuovere la crescita, ed anche ed aggiunti al cibo;
  • ormoni somministrati per mantenere lo stato di gravidanza continuo e per aumentare ulteriormente la produzione di latte nelle mucche.

Gli inquinanti ambientali sono certamente presenti, in generale, nei prodotti animali più che in quelli vegetali, e sono sicuramente molto pericolosi per la salute dato che tendono ad accumularsi anche nel corpo umano, con effetti negativi dimostrati scientificamente; ma essi possono più o meno facilmente essere evitati ricorrendo all'allevamento biologico degli animali, che prevede sia che siano alimentati con prodotti da agricoltura biologica, e sia che siano lasciati il più possibile liberi all'aria aperta (sempre ammesso che questo tipo di allevamento sia sostenibile).
Gli inquinanti ambientali, insomma, non costituiscono un argomento forte nella dialettica con gli “onnivori”, per cui si tralascia qui la loro disamina.

fonte : http://perladieta.blogspot.it/2012/09/il-vero-problema-del-cibo-di-origine.html#more
Dott.Adalberto Caccia 

Proteine, carboidrati e grassi: qual è il giusto rapporto nel fabbisogno umano?

Introduzione

Il rapporto Proteine:Carboidrati:Grassi va sempre considerato prima di scegliere una nuova dieta: di cosa si tratta? E come si fa a scegliere quello giusto per ognuno di noi? Per fortuna, la Scienza moderna dà molte indicazioni, se non proprio risposte certe, per far luce su questo argomento, lasciando da parte le mode del momento.


Il rapporto PCF

Il "PCF ratio" (Proteins:Carbohydrates:Fats - Proteine:Carboidrati:Grassi) è un modo standard per rappresentare la composizione di una dieta in termini percentuali di proteine, carboidrati e grassi.

Mentre le etichette nutrizionali che troviamo sugli alimenti che acquistiamo hanno la composizione espressa in percentuali di peso (es: grammi di grassi su 100g di prodotto = % di grassi), il rapporto PCF è misurato in termini di energia: fatto 100% il totale di calorie (giornaliere, o di una porzione di cibo), il rapporto PCF ci indica quanto in proporzione contribuiscono al totale energetico le proteine, i carboidrati ed i grassi.


E siccome 1 grammo di carboidrati vale circa 4 kcal, così come 1 g di proteine, mentre 1 g di grassi vale circa 9 kcal, il valore energetico del cibo differisce molto a seconda che lo si consideri in percentuali sul peso o sull'energia! Per distinguerli, uso il simbolo % per la normale percentuale sul peso, e il simbolo %Eper la percentuale sull'energia.

Un esempio dovrebbe chiarire la differenza in modo semplice. Consideriamo il latte di vacca intero (è solo un esempio: ormai se ne sconsiglia vivamente il consumo), eccone la composizione in termini percentuali:

Latte intero, 100g - energia: 62,2kcal - proteine: 3,10g - carboidrati: 4,80g - grassi: 3,40g.

Perciò questo è un prodotto normalmente etichettato come "3,4% di grassi".

Ma moltiplicando i singoli valori per il cambio in termini di energia si ha:

proteine    = 3,10 * 4 = 12,4kcal 

carboidrati = 4,80 * 4 = 19,2kcal

grassi      = 3,40 * 9 = 30,6kcal

(Controllo: sommando i tre valori così ottenuti si ottiene proprio il valore totale visto prima, cioè: 62,2kcal.)

Ora bisogna valutare il rapporto di ciascun prodotto rispetto al totale:

proteine    = 12,4 / 62,2 = 20%E

carboidrati = 19,2 / 62,2 = 31%E

grassi      = 30,6 / 62,2 = 49%E

Dunque il latte intero è un alimento che ha il 3,1% di proteine, il 4,8% di carboidrati e il 3,4% di grassi, ma in termini energetici è 20:31:49, cioè ben metà dell'energia fornita dal latte deriva dai grassi, meno di un terzo dai carboidrati e solo un quinto dalle proteine.

Proprio per questo nel pianificare una dieta si considerano i rapporti PCF e non quelli in termini di peso!


Ma ora che abbiamo capito cos'è il rapporto PCF, come facciamo a sapere qual è quello più consigliabile per la nostra salute? Per orientarci tra le varie diete "offerte" attualmente, per fortuna possiamo far ricorso alla documentazione scientifica WHO (World's Health Organization, o Organizzazione Mondiale della Sanità - OMS) e FAO (Food and Agricolture Agency of the United Nations Organization, o Agenzia ONU per il cibo e l'agricoltura).


Il giusto apporto di grassi

In FAO report of an expert consultation on fats and fatty acids in human nutrition (2010) si esprime il consenso scientifico attuale sulla correttezza di un apporto di grassi compreso tra il 15%E e il 30%E sul totale energetico giornaliero, con una punta massima di 35%E per casi particolari. Ma i grassi non sono tutti uguali: per i grassi polinsaturi essenziali Omega-3 ed Omega-6 sono consigliati livelli di assunzione del 2%E e del 9%E rispettivamente, il che ci consente di concludere che l'11%E di assunzione di grassi è un minimo assoluto per la nutrizione ottimale; dato che gli altri grassi non sono essenziali (i monoinsaturi), o sono addirittura sconsigliati (i saturi), o persino "vietati" (i trans), se ne conclude che se si potesse scegliere con precisione i grassi da assumere potremmo anche limitarci a 11%E, ma ciò è sconsigliabile vista la normale composizione mista di tutti gli alimenti grassi (ad es. l'olio d'oliva contiene molti grassi monoinsaturi, ma anche saturi e polinsaturi).

La discussione fin qui presentata ci permette già di escludere alcune opzioni presenti sul mercato delle diete al momento, e cioè:

la "Dieta 80/10/10" (10:80:10 in termini corretti PCF) del Dr. Douglas Graham: un livello così basso di grassi non consente, in linea di massima, di ottenere tutti i grassi polinsaturi essenziali per uno stato di salute ottimale;

la "Dieta Paleo", cioè (tipicamente) 15:25:65, perché assolutamente troppo ricca di grassi;

la "Dieta Atkins", la "Dukan" e tutte le altre che inducono chetogenesi nell'organismo grazie ad un livello innaturalmente basso di carboidrati, tipo 45:10:45; ovviamente tali dieta sono anche troppo ricche di grassi per ciò che è stato fin qui esposto.


Il giusto apporto di proteine

In Protein and amino acid requirements in human nutrition - Report of a joint FAO-WHO-ONU expert consultation (2007) si stabilisce in 0,66 g per ogni kg di peso corporeo il fabbisogno proteico giornaliero minimo di una persona adulta. Questo valore è stato stabilito con un margine di sicurezza per garantire il sufficiente apporto di amminoacidi essenziali (le proteine sono composte da amminoacidi; il nostro corpo scinde tutte le proteine assunte con l'alimentazione durante la digestione per ottenerne gli amminoacidi componenti, che poi assorbe in base alla necessità; tra i 20 amminoacidi catalogati, da 8 ad 11 vengono definiti essenziali perché il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli autonomamente).

Per un uomo che pesi circa 70kg, questo valore minimo si traduce in 46,2g di proteine al giorno; in termini di energia, il valore corrisponde a circa 185kcal; essendo circa di 2400kcal il fabbisogno energetico giornaliero di un uomo di 30-40 anni che pesi 70kg, ecco che il valore minimo per le proteine corrisponde, in questo caso, a circa 7,7%E.

Più avanti il documento FAO sulle proteine approfondisce l'effetto avverso che l'apporto di proteine in quantità superiori, tipo nella SAD (Standard American Diet, che ha proteine a 35%E e in gran parte di derivazione animale), ha sulla salute, in particolare dato che gli scarti metabolici delle proteine animali sono acidi, ed i reni per neutralizzarli devono "sprecare" del calcio che finisce poi nelle urine.

Queste considerazioni portano gli scienziati ad introdurre un "safe limit", o limite di sicurezza, sull'assunzione di proteine, che non può quindi superare la quota di 0,83 g per kg di peso corporeo per gli adulti. Questo corrisponde a circa 58,1g al giorno per un uomo di 70kg, cioè 232kcal, dunque 9,6%E per un fabbisogno di 2400kcal al giorno.

Per inciso: portando avanti il discorso sull'assunzione delle proteine animali, nella documentazione ufficiale WHO-FAO sul fabbisogno di vitamine e minerali si arriva a considerare valori molto diversi per il fabbisogno di calcio per chi consuma "poche proteine animali"!

Il safe limit sulle proteine ci consente quindi di (ri-)scartare le seguenti tipologie di diete:

la "Dieta equalizzata", cioè 33:34:33, troppo ricca di proteine;

la "Dieta a zona", cioè 30:40:30, troppo ricca di proteine;

la "Dieta Atkins", la "Dukan" e tutte le altre che inducono chetogenesi nell'organismo grazie ad un livello innaturalmente basso di carboidrati, tipo 45:10:45; ovviamente tali diete sono anche troppo ricche di  proteine per ciò fin qui esposto.


Il giusto apporto di carboidrati

In tutti i piani dietetici i carboidrati sono ottenuti solitamente per differenza, nel senso che prima si vincolano le proteine ed i grassi, per le motivazioni più varie ma anche per quelle scientificamente valide viste prima, e solo successivamente si ricava la quota di carboidrati:

100 - (proteine + grassi).

In Joint FAO/WHO Scientific update on carbohydrates in human nutrition (2007) si riconosce l'importanza dei carboidrati come principale fuel, o carburante, per il nostro organismo, e si definisce come accettabile un intervallo tra 50 e 75%E sull'energia totale giornaliera.

Questo ci permette di (ri-)scartare alcune delle diete viste prima:

la "Dieta equalizzata", cioè 33:34:33, perché troppo povera di carboidrati;

la "Dieta a zona", cioè 30:40:30, perché troppo povera di carboidrati;

la "Dieta Paleo", cioè 15:25:65, perché troppo povera di carboidrati;

la "Dieta Atkins", la "Dukan" e tutte le altre che inducono chetogenesi nell'organismo grazie ad un livello innaturalmente basso di carboidrati tipo: 45:10:45.

la "Dieta 80/10/10" del Dr. Graham, in quanto troppo abbondante in carboidrati, anche se il Dr. Graham aderisce completamente al principio di selezione dei carboidrati esposto qui sotto.

Nel documento FAO/WHO sopra richiamato si stabilisce anche l'importantissimo principio di selezione dei carboidrati sul quale converge il consenso scientifico moderno:

è più importante scegliere il giusto tipo di carboidrati che limitarne l'assunzione; infatti: "Whole-grains, legumes, vegetables and intact fruits are the most appropriate sources of carbohydrate.", cioè: cereali integrali, legumi, verdura e frutta intatta sono le fonti più appropriate di carboidrati!

Questo principio è approfondito nella discussione sull'indice glicemico dei carboidrati.

Il rapporto PCF standard

Si può quindi concludere che una dieta scientificamente sostenibile e soprattutto adeguata al mantenimento della salute dell'individuo, deve rispettare questi parametri:

proteine:     8 - 15%;

grassi:      15 - 35%;

carboidrati: 50 - 77%.

I carboidrati sono, come sempre, calcolati per differenza, sempre tenendo conto del principio di selezione appena visto.

Una dieta di successo, sia che si voglia diminuire o aumentare il proprio peso corporeo, sia che la si intraprenda per migliorare lo stato di salute, non deve necessariamente basarsi completamente sul calcolo delle calorie: bisogna sempre assicurarsi, prima di ogni altra cosa, che il piano dietetico che seguiamo sia progettato per fornire al nostro corpo una nutrizione ottimale, che ne migliori il benessere.


OLTRE IL RAPPORTO PCF STANDARD

Dopo aver letto e digerito tutti questi numeretti, dovremmo domandarci che senso abbia ancora il parlare di calorie, nonché di rapporto Proteine-Carboidrati-Grassi quando ormai è scientificamente arcinoto che 1 caloria di frutta o verdura è molto diversa da 1 caloria di latticini, carni, uova, quindi il concetto stesso di caloria è ormai da ritenersi superato, in effetti.


Poi sappiamo che le calorie sono composte di Proteine, Carboidrati e Grassi, ma:


Proteine: sono tutte uguali? No! Le proteine animali sono le prime responsabili dell'acidosi metabolica che molti di noi si portano dietro senza saperlo!

Carboidrati: sono tutti uguali? Neanche per idea! Quelli raffinati (zuccheri, farine bianche e loro derivati, riso bianco) e/o troppo cotti (es.: patate fritte) fanno male, mentre quelli interi e integrali fanno bene.

Grassi: sono tutti uguali? Nemmeno lontanamente! Ricchi di grassi saturi e colesterolo quelli animali, che diventano addirittura i micidiali grassi trans con la cottura e le varie raffinazioni industriali. E soprattutto insaturi e polinsaturi (essenziali), invece, quelli vegetali (che però anch'essi diventano micidiali trans con le raffinazioni e i trattamenti industriali).

Iniziamo a capire come mai 14 sulle 15 più mortali malattie in USA (e nel mondo "occidentale") sono prevenibili con la dieta basata su alimenti vegetali interi (video in inglese); l'unica causa di morte non prevenibile con la dieta sono gli incidenti stradali!!!


Insomma: se si sceglie la via della salute, si può smettere di porzionare il cibo, e mangiare a sazietà rispettando varietà, stagionalità e, possibilmente, provenienza locale del cibo.


fonte:http://perladieta.blogspot.it/2012/01/proteine-carboidrati-e-grassi-qual-e-il.html

Dott. Adalberto Caccia




Tutto cucinato in loco, che bontà!!!

Buongiorno, come anticipato il giorno lunedì 9 sono stato invitato a provare il cibo della mensa e a parlare con la delegata comunale per la commissione mensa.

In primis vorrei informarvi che TUTTO ciò che mangiano i bambini viene cucinato nella mensa della scuola percui togliamoci dalla testa che viene precotto e scaldato (soprattutto mamme che portano i figli dalle suore per questo motivo mi raccomando alla disinformazione ), tale situazione era vera alcuni anni fa perché semplicemente non era ancora presente la cucina.

La cucina è la piu indicata per i bambini (poco sale, nulla di fritto , nessun utilizzo delle margarine) e lavoreremo per migliorarla ancora di più dato che tutto deve essere approvato dall'ASL (purtroppo non sono molto aperti di mentalità e non aggiungo altro).

Martedì 17 verranno ufficializzati i componenti della commissione mensa e ci sarà l'incontro in comune.

Vi aggiornerò appena possibile.

Un saluto a tutti.

sabato 7 novembre 2015

Sindrome della permeabilità intestinale, celiachia, sensibilità al glutine, spettro autistico, micotossine e tolleranza immunologica

Diverse patologie umane partono da un intestino poco efficiente. Ma cosa rende inefficiente l’intestino? Bisogna rivalutare i rapporti tra cibo e salute. Tre milioni di italiani e venti milioni di statunitensi soffrono di sensibilità al glutine, sindrome simile ma allo stesso tempo diversa dalla celiachia. Dalla sensibilità al glutine scaturiscono patologie diverse, in funzione del polimorfismo genetico dei soggetti e dell’ambiente in cui essi vivono. Aumentando le nostre conoscenze sulle interazioni tra cibo, abitudini alimentari, genomica e ambiente è possibile effettuare una prevenzione e/o terapia migliore. È iniziata l’era dell’epigenetica mentre il dogma del determinismo genetico si avvia al tramonto.

Permeabilità dell’intestino Molti studi sulla permeabilità della barriera gastrico-intestinale (g.i.) indicano che essa è strettamente dipendente dal genoma dei batteri intestinali 1,2 3. L’intestino con flora batterica compromessa che a sua volta compromette la produzione di enzimi digestivi, perdendo le normali condizioni biochimiche, relative a pH, vitamine, peptidi e batteri, genera infiammazione minima submucosale secondaria, tale da alterare alcuni pattern enzimatici presenti sulle membrane cellulari, in particolare sui microvilli (un caso eclatante è quello della lattasi 1).
In condizioni normali i microvilli permettono la digestione fisiologica e l’assorbimento dei micronutrienti, mentre in condizioni anomale si determina il passaggio di macro-molecole oltre la barriera g.i, (Fig. 1) che per le loro dimensioni possono essere identificate come non self e risultando immunogene possono scatenare una risposta immunologica. L’epitelio g.i. è normalmente una barriera selettivamente permeabile e la sua funzione è determinata dalla formazione di complessi proteina-proteina: desmosomi (desmosome junctions), emidesmosomi (hemidesmosome junctions), giunzioni comunicanti (gap junctions), aderenti (adherens junctions) e giunzioni strette (tight junctions). Queste ultime collegano meccanicamente cellule adiacenti per sigillare lo spazio intercellulare.
Nel corso dell'ultimo decennio, c'è stata una crescente attenzione alle tight junction, in quanto la loro alterazione determina un’interruzione della funzione di barriera g.i. che contribuisce a favorire reazioni immunologiche (malattie autoimmuni ed infiammatorie) 1,4,5.
Evidenze sperimentali [6,8] suggeriscono che la disfunzione delle giunzioni strette sia concausa, ma forse la principale, per l’insorgenza di malattie infiammatorie immunologiche sistemiche, malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI), allergie alimentari e celiachia [22,23]. Ciò sembra inoltre partecipare all’evoluzione dell’Autismo 2,12,13,14,15,16. Complessivamente, i risultati di tutti questi studi mostrano o comunque sembrano suggerire che le malattie correlate con l’intestino permeabile possano scomparire e/o arrestarsi se la funzione di barriera intestinale del paziente viene ristabilita. Le prove a sostegno di tutto ciò sono ancora incomplete, ma sono abbastanza solide da incoraggiare i ricercatori a proseguirne il cammino intrapreso.
Le tight junction sono il target primario degli agenti esterni, che agendo come inquinanti chimici e/o biologici [9,10] interagiscono con la matrice proteica delle giunture, alterandone la conformazione e quindi aumentandone sempre di più la permeabilità agli agenti esterni. Le nostre osservazioni hanno individuato nell’ingestione inconsapevole di inquinanti biologici (micotossine) e conseguente disbiosi e sporificazione da Candida, i fattori determinanti della sindrome della permeabilità intestinale (leaky gut syndrome). Si stabilisce così un nuovo equilibrio del microbiota 24-29, che spesso può anche non determinare segni o sintomi clinici rilevanti 10,11 .
In ogni caso, bisognerebbe comunque verificare il tempo di non insorgenza dei sintomi tipici della sindrome, in relazione anche alle fasce d’età. È necessario capire perché in alcuni soggetti non c’è insorgenza e se si tratta di una situazione temporanea o duratura. Uno studio di questo genere potrebbe svelare altri meccanismi, probabilmente del sistema immunitario, ancora sconosciuti.
Tolleranza immunologica: celiachia e sensibilità al glutine (gluten sensitivity)La grande peculiarità della celiachia è indubbiamente il fattore ambientale che la causa: la gliadina. Si tratta di un peptide immunogenico, resistente alla digestione enzimatica pancreatica e gastrica, che solo a causa delle modificazioni delle giunzioni strette riesce a trovare il passaggio per arrivare alla lamina propria (parte della mucosa intestinale), dove ha luogo la risposta immunitaria. Come dire: se non si apre la porta non si può passare. In ogni caso, è proprio qui, a livello di lamina propria, che la transglutaminasi tissutale (tipo II - tTG) catalizza legami covalenti tra glutammina e lisina. E i peptidi così deamminati creano epitopi (parti dell’antigene che si legano all’anticorpo specifico), con un aumentato potenziale immunostimolatore.
Con questa modifica viene ad aumentare l’affinità degli antigeni, presentati dalle APC (Antigen-presenting Cell) ai macrofagi, ai linfociti B e T CD4+ (linfociti helper), con il sistema HLA II (Human Leukocite Antigen II) e quindi con i due geni o molecole proteiche DQ2 e DQ8 da essi prodotti. Le lesioni della mucosa intestinale (atrofia dei villi e iperplasia delle cripte) riscontrabili con l’esame bioptico sono il risultato di questo processo immunologico dinamico e modulabile nel tempo. Sebbene sia nota la componente genetica della malattia celiaca, con numerose evidenze quali il rischio aumentato di malattia nei parenti di primo grado, la concordanza nei gemelli omozigoti superiore al 75% e la concordanza nei gemelli dizigoti del 13%, ci deve essere sempre un primum movens, che è l’apertura delle giunzioni strette (tight junction).
La Sensibilità al glutine (Gluten Sensitivity), invece, non è una forma attenuata della celiachia, ma una malattia a se stante. Essa, pur diversa dal punto di vista molecolare e immunitario, potrebbe presentare tuttavia la stessa causa scatenante, cioè l’apertura delle giunzioni strette (tight junction). Il fatto che nel mondo ci sono 3 milioni d’italiani e 20 milioni di statunitensi affetti da sensibilità al glutine, l’interesse verso questa condizione morbosa e soprattutto sulla sua possibile evoluzione verso la forma tipica è veramente notevole.
La Gluten Sensitivity (GS) non presenta alterazioni della permeabilità intestinale, manifesta solo la flogosi submucosale, che invece, come è noto, è significativamente maggiore nella celiachia. «Nella celiachia si attiva un meccanismo autoimmune condizionato da una risposta adattativa del sistema immunitario, nella GS invece, c’è un meccanismo genetico che coinvolge il sistema immunitario innato, senza interessamento della funzione della barriera intestinale, dove si riscontrano segni di infezione ma non di danno, come avviene nella celiachia»10.
Ad oggi non esistono test di laboratorio o istologici in grado di confermare questo tipo di "reattività", di conseguenza si tratta di una diagnosi cui si giunge per esclusione; la diagnosi sarà seguita da una dieta con eliminazione del glutine ed un open challenge (una reintroduzione sorvegliata di alimenti contenenti glutine), per valutare se si verifica un effettivo miglioramento dei sintomi alla riduzione o eliminazione del glutine dalla dieta ed una ricomparsa dei disturbi alla reintroduzione di questa proteina alimentare.
Possiamo dire che le due condizioni patologiche, la celiachia e la GS, hanno in comune, come fattore scatenante, il glutine. Ma è arrivato il momento di aggiungere un altro fattore esterno o ambientale: le micotossine. Possiamo cioè affermare che l’alimento diventa comune denominatore del danno, non solo per il contenuto di macronutrienti, qualitativo e quantitativo, ma anche per le diverse micotossine che sinergicamente possono contribuire alla sindrome della permeabilità intestinale (leaky gut syndrome) [17, 21]. Tra le principali micotossine che partecipano o favoriscono la sindrome (aflatossine, ocratossine, ecc.) la nostra attenzione si è focalizzata sul deossinivalenolo (DON).
Per la facilità di contaminazione degli alimenti più comuni come pasta e pane, le micotossine, tra cui il DON, il più studiato, hanno una particolare predilezione per le giunzioni strette. Ciò potrebbe essere correlato ad una innumerevole quantità di manifestazioni cliniche che insorgono apparentemente senza un motivo identificabile. E’ auspicabile che la ricerca futura intensifichi gli studi su un numero maggiore di micotossine e sulle loro reciproche interazioni.
Negli ultimi cento anni l’uomo ha favorito i riarrangiamenti genetici, producendo ibridi interspecifici nel genere Triticum (frumenti) e intergenerici, tra Triticum e Secale (Triticale) per migliorarne le rese per ettaro. Nessuno ha mai verificato, per quanto ci risulta, su basi strettamente scientifici, se questi cambiamenti genetici hanno favorito una risposta immunologica e quindi determinato un incremento o meno delle condizioni che conducono alla celiachia, GS, all’autismo ed eventualmente ad altre malattie negli ultimi 30 anni. L’INRA di Tolosa 31 ha studiato i meccanismi molecolari e la risposta immunitaria verso grani, farine e paste privi di micotossine, facendo particolare riferimento al DON. Forse nei risultati di questi studi c’è già una risposta, ma c’è bisogno di un approfondimento (elaborazione) o ulteriore sperimentazione prima di dare una soluzione definitiva alla questione, e cioè se i cambiamenti genetici indotti con gli incroci e mutazioni artificiali hanno una qualche relazione con la celiachia e l’autismo 14,16,17,18.

La ricerca sulle micotossine si complica quando entra in gioco un altro fattore: le lectine. La differenza genetica tra i frumenti è da ascrivere anche a proteine denominate lectine, che sono presenti non solo nei saprofiti e patogeni, ma anche negli alimenti e sulla mucosa del tratto digerente. Le lectine, di diversa composizione chimica, si correlano con gli antigeni A o B, presenti sulla membrana degli elementi figurati del sangue, in particolare dei globuli rossi.

Quando ingeriamo un alimento contenente lectine incompatibili, col nostro codice di riconoscimento attiviamo una risposta minima immunologica (Minimal Flogosis). Quindi anche le lectine possono innescare un danno alle pareti dell’apparato digerente. Se contestualmente l’alimento contiene anche micotossine (in quantità biologiche significative), come il DON, allora diventa valida l’ipotesi della risposta di una sintomatologia clinicamente rilevante.

In altre parole, le lectine darebbero il via alle micotossine (macromolecole). Le lectine sono quelle che aprono la porta? Per tali motivi e per valutare l’effettiva dipendenza dal glutine delle alterazioni cliniche e sintomatologiche evidenziate nei soggetti con Sensibilità al Glutine (GS), un gruppo di ricercatori che fanno capo al Consorzio Campo e la fondazione Dino Leone di Bari, hanno avviato un progetto di ricerca per studiare questa relazione tra natura o composizione degli alimenti, micotossine e sistema immune.
Il deossinivalenolo (DON o Vomitossina)Il deossinivalenolo (DON) è una micotossina, uno dei metaboliti di alcuni ceppi fungini (muffe), appartenenti al genere Fusarium (F. graminearum e F. culmorum, ecc.). Si tratta di “fattori tossici naturali e involontari”, cancerogeni, teratogeni e mutageni. Dallo stesso fungo si possono originare più tossine, come nel caso della candida (Candida albicans) e ci possono essere sinergie tra tossine diverse, come nel caso della ocratossina A (OTA) e la citrinina.
Su scala globale, il DON è la micotossina di gran lunga più frequente e quindi quella più temuta e per questo più studiata. Si contaminano particolarmente i cereali e loro derivati ​​(farine, pane, ecc.). In considerazione della sua estrema stabilità (termostabile) durante i diversi trattamenti tecnologici e la quasi totale assenza di processi di decontaminazione, il DON lo si può trovare facilmente anche negli alimenti finiti.
E’ quindi importante caratterizzare gli effetti tossici del DON, in particolare su tutto l’intestino, stomaco compreso, primo organo che entra in contatto con gli alimenti.
Questa micotossina riduce la funzione di barriera dell’intestino (riduzione della resistenza elettrica dell’epitelio, aumento della permeabilità cellulare alle molecole, aumento del passaggio di batteri). L’alterazione della funzione di barriera g.i è associata ad una riduzione della funzione proteica ​​(claudins) in una particolare regione del tessuto intestinale: le cosi dette giunzioni strette (Fig. 2). Queste svolgono il ruolo di “cerniera” tra le cellule intestinali. Ciò è stato osservato sia in colture cellulari sia negli intestini dei maialini che avevano ingerito mangimi contaminati 31.

Fig. 2. Giunture strette e proteine coinvolte (cortesia di wikimedia Italia)7
Il fatto che il DON riduca la funzione di barriera intestinale causa un aumento del passaggio di batteri attraverso l’intestino. Viene alterata la permeabilità intestinale. Ciò ha conseguenze importanti in termini di suscettibilità alle infezioni (Salmonella, Escherichia, ecc.). Aumenta il passaggio di agenti inquinanti, come metalli pesanti, pesticidi, potenziandone gli effetti dannosi, che possono favorire reazioni immunologiche locali e sistemiche e condizionare la prognosi di malattie come la sensibilità al glutine (Gluten Sensibility) e l’autismo. Il danno indotto può offrire anche valutazioni indirette di grande interesse, in quanto le alterazioni della mucosa modificano, anche se di poco, la funzione biochimica cellulare.
Si assiste ad una carenza di vit. B12 per i motivi su esposti, quindi ad una diminuzione delle desaturasi e ciò spiegherebbe l’alterazione delle membrane in quanto povere di polinsaturi e ricche di saturi (fosfogliceridi).
A livello intestinale può essere penalizzato l’assorbimento della vitamina B12, che necessita del Fattore Intrinseco (F.I.) Intestinale (o Gastrico o di Castle). Una carenza di B12 può ostacolare la conversione fisiologica dell’omocisteina in metionina. A cio’, seguirà, secondo una variabile dipendente dalla predisposizione individuale, la comparsa delle spie cliniche.
Essendo il DON di facile presenza nelle mense scolastiche, asili nido ed elementari, dove arriva specialmente con il pane e più limitatamente con la pasta, l’industria di questi alimenti dovrebbe essere obbligata a lavorare il grano prestando maggiore attenzione alla contaminazione in campo e ad attuare processi fermentativi specifici in grado di abbattere la carica di micotossine.

Emergenza autismo
Dopo il lavoro di Reichelt [30], sono sempre di più gli autori che evidenziano nelle urine dei bambini affetti da autismo la presenza di alti livelli di peptidi “oppioidi” (casomorfina e glutomorfina). Ciò consente di ipotizzare che i bambini autistici durante i processi digestivi, per un’alterata digestione di queste proteine dovuta a meccanismi ancora non chiari, (ma che comunque implicano un coinvolgimento delle giunzioni strette), assorbano peptidi anomali che influenzano il meccanismo della neurotrasmissione (vedi inibizione della normale maturazione neuronale di Reichelt, 1986), in quanto riescono a superare la barriera emato encefalica.
Tali molecole per la loro affinità con i recettori m possono essere una concausa del comportamento di tali pazienti2. Per questo motivo, spesso, viene loro indicata una dieta priva di tali alimenti. Un periodo di astensione da glutine e caseina, che varia a seconda dei casi, permette di abbassare sensibilmente i livelli dei peptidi oppioidi. I risultati ottenuti sono molto incoraggianti, soprattutto se viene praticata in età non scolastica, ma nei primi anni di vita, quando le potenzialità evolutive e la neuro plasticità sono ancora molto attive.
Queste considerazioni diventano imperative in tutte le donne gravide con rischio di familiarità. Basti pensare che alcuni studi indicano che ci sono alti livelli di micotossine nel cordone ombelicale, più alti di quelli plasmatici. L’alterazione delle giunzioni strette segue la disbiosi3. È noto che a seguito del ripristino dell’equilibrio, (eubiosi), si riduce la permeabilità intestinale, contestualmente al miglioramento delle condizioni generali dei bambini.
Il lato positivo della dieta naturale senza glutine e caseina è espresso dal notevole miglioramento ottenuto dai bambini che seguono tale regime alimentare: maggiore attenzione, miglioramento delle capacità interattive, regressione dell’iperattività, delle stereotipie, dei comportamenti violenti, maggiore resistenza alle infezioni e miglioramento della qualità del sonno.

Conclusioni
I risultati delle numerose ricerche incoraggiano ad approfondire gli studi sugli effetti della contaminazione degli alimenti da micotossine, sia nella dieta dell’uomo che in quella degli animali, evitando così di inquinare tutta la catena alimentare. In questo modo si coglierebbe l’obiettivo di ridurre il problema della permeabilità intestinale, punto di partenza di diverse patologie.
Attualmente, uno degli obiettivi dei ricercatori è di comprendere i delicati equilibri immunologici legati probabilmente al consumo di alimenti ricchi di glutine “pesante” e valutare il consumo in relazione alla rapida diffusione delle malattie correlate al glutine. I grani dell’agricoltura industriale, che sono la maggior parte, sono iperconcimati, spesso coltivati in ambienti che favoriscono la contaminazione da funghi con conseguente sviluppo di micotossine.
Questi grani contengono una quota di glutine superiore del 12% rispetto a quelli non iperconcimati, e rendono difficile la vita non solo ai soggetti border line per la celiachia, ma in tutti i casi caratterizzati da manifestazioni immunologicamente correlate, “sindrome metabolica” compresa. Sembra quindi che la crescente sensibilità alle diverse patologie sia determinata dalla crescente diffusione dei grani moderni, con più glutine, a discapito dei grani antichi, con meno glutine e con i quali l’uomo si è evoluto. Per alcuni si tratta ancora di ipotesi, per altri di certezze. Per questo il compito della ricerca, svolta da gruppi di lavoro multidisciplinari, deve essere di eliminare, per quanto possibile, ogni zona d’ombra.
(1a) Lo studio è basato su dati della letteratura specializzata, reperibile attraverso Medline e diversi documenti ufficiali divulgati da varie istituzioni pubbliche e private.
Ringraziamenti
Si ringrazia il Presidente della Fondazione Cav. Dino Leone, Dottor Osvaldo Catucci.

Note
1. La lattasi è l’enzima prodotto nei microvilli intestinali e serve a digerire il lattosio, cioè a scinderlo in glucosio e galattosio. Cosa che avviene nei soggetti detti lattasi persistenti, cioè che anche da adulti tollerano il lattosio perché continuano a produrre la lattasi. In questi soggetti il gene LCT (cromosoma 2) che produce la lattasi non si spegne con lo svezzamento, come avviene in chi è intollerante al lattosio. Poiché la lattasi è prodotta a livello dei microvilli, eventuali problemi ai microvilli, come può essere la celiachia (intolleranza al glutine) possono comportare mancata produzione di lattasi e quindi una falsa intolleranza al lattosio.
2. I recettori per gli oppioidi sono dei recettori chiamati così in quanto sono attivi con la morfina (derivato dell' oppio). Fisiologicamente le molecole attive su questi recettori sono le encefaline, endorfine, dinorfine. Si conoscono 3 recettori: m, k e d. Il loro meccanismo è legato alla modificazione dell'elettrofisiologia del potassio e del calcio e più precisamente: Recettori mu e delta aumentano la conduttanza al potassio mentre i recettori K riducono la conduttanza al calcio. I 3 recettori hanno un'azione di tipo analgesico, ma a diversi livelli. m: Genera analgesia (livello sovraspinale), depressione respiratoria, diminuzione attività gastro intestinale, euforia, miosi; K: Genera analgesia (livello spinale), miosi, depressione respiratoria, disforia (a differenza dei recettori m); Delta: non genera analgesia, ma diminuiscono il transito intestinale e deprimono il sistema immunitario.
3. La disbiosi intestinale è causata da cattiva alimentazione ricca di cibi raffinati additivi e inquinanti, farmaci, stress, vita sregolata. I sintomi sono: pancia gonfia, cattiva digestione, colite, diverticolosi, allergie, intolleranze alimentari, stanchezza cronica e forme gravi di epatite

A cura del dottor Maurizio Proietti - www.maurizioproietti.it

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